Primo Moroni racconta la libreria Calusca
Da oggi, 30 Marzo, in occasione del ventennale dalla morte di Primo Moroni, il blog Impunita – grazie a una collaborazione con il Cox18, la Libreria Calusca e l’Archivio Moroni – pubblicherà alcuni testi conservati dall’Archivio, con l’obiettivo di renderli visibili e utili al dibattito contemporaneo.
In particolare saremo felici di contribuire a far rivivere il ricchissimo «Fondo Scuola», i preziosi materiali autoprodotti dal movimento degli/delle insegnanti tra gli anni ’70 e ’80; le sperimentazioni di scrittura collettiva dei libri di testo realizzate insieme ad alunni e alunne nelle classi; le riviste specifiche che riportano il fermento del dibattito di allora su pedagogia e didattica, un lavoro di riflessione che animò le lotte degli/delle insegnanti e portò a riformare radicalmente la scuola dell’obbligo; gli opuscoli sull’esperienza delle 150 ore; i numeri dell’enciclopedia Io e gli altri.
Ci sembra utile cominciare pubblicando la trascrizione che abbiamo realizzato di un’intervista video a Primo Moroni del 1987. Nell’intervista Primo racconta la storia della Libreria Calusca mettendone in luce la potente funzione di centro di produzione e diffusione di saperi, di luogo d’aggregazione, comunicazione e scambio tra diverse esperienze politiche e culturali della città di Milano, d’Italia e di tutta Europa. Nell’intervista, inoltre, Primo dedica largo spazio all’importanza che la Libreria ha avuto come «Centro di documentazione scuola» e punto di riferimento per il movimento degli insegnanti di Milano e provincia.
Il testo dell’intervista è preceduto da un’introduzione a cura di CSOA Cox18, Calusca City Lights, Archivio Primo Moroni.
VENTI
Il 30 marzo di vent’anni fa ci lasciava Primo Moroni, un compagno, un amico. Primo aveva attraversato anni intensi di lotte, insubordinazioni e rivolte, quel vasto processo sociale ch’egli chiamò, nel titolo di un suo giustamente famoso libro, L’orda d’oro, con una singolare intelligenza e sensibilità. Antropologo della città, libraio del movimento, crocevia delle più varie anime della rivolta, scientifico ballerino della vita, ha saputo unire diversità e percorsi singolari senza mai dimenticare l’obiettivo di un mondo che fosse per tutti migliore, costantemente impegnato in un’attività intesa a «socializzare saperi senza fondare poteri». Nel 1992 Primo riapre la libreria Calusca all’interno del Centro Sociale Cox18, in via Conchetta 18 a Milano, a riprova della sua disponibilità a confrontarsi con culture e contro-culture anche generazionalmente distanti dalla sua. Di questa scelta disse: «Ho pensato che riaprire la libreria in un luogo giuridicamente insicuro come un Centro Sociale occupato e autogestito, fosse una risposta simbolica e soggettiva al razzismo politico e amministrativo del Comune», o, aggiungiamo noi ora, di qualsiasi altra istituzione nazionale, «nei confronti di questi luoghi. I centri sociali sono malvisti? Allora io mi metto in quei luoghi, spendo la mia persona e il mio progetto proprio in questi luoghi e mentre faccio questo creo o voglio creare, un luogo di produzione e di ricerca culturale». Da allora Primo ha partecipato attivamente all’assemblea di gestione del centro di cui si è preso cura insieme con noi, che con lui ci siamo confrontati, abbiamo discusso, ci siamo scambiati conoscenza, pratiche e memoria. Morendo Primo ci ha lasciato un patrimonio di libri, riviste, documenti di cui si fa carico, dal 2002, l’Archivio Primo Moroni, nei locali di quella che fu e continua a essere la Libreria Calusca City Lights. Benché lenti e incostanti, cerchiamo di rendere disponibile questo patrimonio a chi ne ha piacere, sicuri che un occhio rivolto con intelligenza al passato possa aiutare, e non poco, nelle lotte dell’ora che annunciano il poi.
I materiali che seguono fanno parte degli scritti di Primo che abbiamo in questi anni conservato insieme a quanto di più caro egli ci ha lasciato.
Non temiamo tribunali, poliziotti o malasorte. QUI SIAMO E QUI RESTEREMO
CSOA Cox18, Calusca City Lights, Archivio Primo Moroni
Primo Moroni racconta la libreria Calusca
(1987, dagli archivi Coxy 18)
I: Primo, com’è nata la libreria Calusca?
P: È nata poco dopo il ’68, alla fine del ’69 sostanzialmente, dall’iniziativa di un collettivo che interveniva sui problemi di organizzazione della cultura. L’idea di fondo era ripresa dalla precedente esperienza delle librerie Feltrinelli, che erano già state diffuse all’inizio degli anni ’60, ma aveva un taglio più militante. L’intenzione era quella di essere una struttura intermedia di servizio a tutti i movimenti esistenti, quindi non legata a nessuna organizzazione politica in particolare. All’inizio è stata frequentata principalmente da anarchici e situazionisti, e poi sono arrivati Lotta Continua, gli operaisti e via dicendo. Aveva un progetto: il progetto di favorire la diffusione dell’editoria militante nata sull’onda del ’68 — quegli editori minori, tagliati fuori dalla grande distribuzione, come Bertani, Savelli, Mazzotta, Musolini etc., nati proprio nel pre e nel post ’68, che prendevano direttamente dai movimenti le indicazioni per fare il catalogo editoriale — però privilegiando anche l’editoria democratica come Feltrinelli o Einaudi, come percorsi. C’era un legame di sopravvivenza economica principalmente indirizzato alla scuola, la scuola dell’obbligo, legato al dibattito contro l’uso del libro di testo. Nascevano allora centinaia di gruppi di insegnanti che volevano l’uso alternativo del libro di testo e quindi producevano nelle classi gli strumenti che sarebbero stati usati poi nelle classi successive dagli altri ragazzini. Il libro di testo veniva prodotto all’interno della scuola e questo necessitava di tanti strumenti di informazione: piccole dispense, ricerche, audiovisivi. E la libreria li produceva. Si è poi collegata all’esperienza genovese dell’unica enciclopedia di sinistra autogestita che è l’enciclopedia Io e gli altri, che non esiste più per altro, che era fatta più o meno da un’area vicina a Il Manifesto, uno strumento di lavoro e di conoscenza.
I: Come mai non esiste più?
P: Ha avuto gravi difficoltà: i Provveditorati l’avevano proibita in tutta Italia più o meno, perché aveva un taglio abbastanza radicale di controinformazione. Partiva dalla nascita del bambino e faceva seguire il percorso tramite le istituzioni: la prima istituzione è la famiglia, la struttura della parentela, e poi il gioco e poi la scuola, e dopo la scuola il mondo del lavoro, e dopo il mondo del lavoro lo Stato. E tutto questo era letto come un percorso progressivo ed era abbastanza dirompente, in dieci volumi, con una serie di piccoli opuscoli paralleli, che in questo caso venivano realizzati dai bambini o dai ragazzi della scuola media, dopo l’uso delle enciclopedie. Quindi diventava una collana senza fine, che si riproduceva. Ha avuto molti processi, varie difficoltà, alcuni insegnanti han fatto delle battaglie per farla passare. In più diciamo che dopo il ’77 è anche finito il movimento degli insegnanti, avevano difficoltà di continuare a praticare questo lavoro che era tra il militante e il professionale, non rendevano più come riscontro dentro la società e molt
i hanno abbandonato la scuola. Avevamo un “Centro di documentazione scuola” che raccoglieva duemila e passa insegnanti di Milano e provincia, quasi un’organizzazione, pure trasversale, perché c’erano dentro tutti, da Avanguardia Operaia a Lotta Continua o all’Autonomia, indifferentemente. Di questi duemila però, circa mille dopo il ’77 sono andati in prepensionamento, hanno abbandonato, perché non ci credevano più, e quindi di conseguenza anche gli strumenti prodotti non avevano più la capacità di introdursi nella scuola.
I: E oggi? Pensi che una ristampa di una cosa del genere sarebbe troppo datata?
P: Andrebbe aggiornata alla complessità attuale. Allora la freschezza derivava da un continuo intervento sui fatti, su delle situazioni, su delle scoperte, sulla continua critica dell’organizzazione verticale della cultura, anche quando democratica. Si usava il classico meccanismo del capovolgimento: se insegnavi la storia non la separavi dalla geografia, facevi le grandi scoperte geografiche e la nascita del Colonialismo, per fare un esempio, perché legavi i due problemi. C’era forse un po’ di ideologia, qualche eccesso, era però molto ricca come indicazione, soprattutto quando si è sovrapposta alla nascita delle 150 ore. Quando i metalmeccanici hanno conquistato il diritto allo studio, come si diceva allora, la libreria ha prodotto insieme all’FLM [Federazione Lavoratori Metalmeccanici] tutte le dispense che si usavano nelle 150 ore di Milano e provincia. Si integrava quindi la cultura operaia a quella della scuola dell’obbligo, creando questo intreccio che portava la fabbrica nella scuola e la scuola nella fabbrica, comeuna ricchezza.
I: La libreria era, ed è anche tutt’oggi, anche un luogo in cui incontrarsi, dove scambiarsi delle idee?
P: Sì, è stato un fortissimo luogo di comunicazione, una specie di porto franco, in cui si attutivano le differenze e si scambiava molta comunicazione. Ha avuto una serie di collegamenti di tipo nazionale con tutti i centri di documentazione, da quello di Pistoia a quello di Lucca, a quello di Trento, tutti questi materiali venivano veicolati e circolavano in un tessuto di rete fuori da quello ufficiale, con una massa di informazioni. Sono nate su questo modello altre 60 librerie sparse per l’Italia. A Monopoli come a Palermo, a Padova come a Terni, a Torino come a Genova, in una rete che veniva chiamata “Circuito di distribuzione Punti Rossi”. Ogni luogo era indipendente ma erano u
niti da un modello, da un percorso, da uno scambio continuo di arricchimento e di socializzazione, cioè chi sapeva di più dava di più agli altri. Si organizzava un convegno all’anno molto ricco, a cui partecipavano tutte le riviste. Li abbiamo fatti nel ’76, nel ’77 e nel ’78 questi convegni, a Napoli, a Firenze e a Milano. Anche gli editori grandi, ufficiali, hanno partecipato a questi convegni, tipo Einaudi o Feltrinelli. Le riviste trovavano il luogo privilegiato di diffusione in queste librerie, le librerie creavano un circuito di distribuzione parallelo alla grande distribuzione commerciale, o anche a quella media, e in questa struttura di rete si formavano luoghi di incontro e comunicazione che attutivano le differenze e creavano ricchezza. È anche una libreria classica, nel senso che c’è l’editoria classica delle donne, o dei grandi editori, e deve reggere il confronto anche con una buona libreria democratica borghese, come qualità, aveva allora però in più la caratteristica di avere tutte le riviste autoprodotte, ed oggi tutte le fanzine prodotte dalle nuove aggregazioni metropolitane. L’area punk, l’area dark, i dischi, le magliette, le fanzine, le fans magazine, ce ne sono circa 600 in Italia.
I: Come si è trasformata la Calusca in questi anni?
P: C’è stata questa grande crisi all’inizio degli anni Ottanta, derivata da un clima politico generale abbastanza conosciuto — l’intervento della magistratura, una certa cultura emergenziale che ha stroncato molte iniziative — e quindi ha dovuto ripiegare un po’ su se stessa. Sparivano centinaia e centinaia di militanti e c’erano crisi anche di identità politica. Le librerie — salvo quelle che sono scomparse, specialmente in molti luoghi di provincia, inevitabilmente perché c’era meno ricchezza — nelle grandi città come Torino, Padova, Bologna, Firenze, Roma e Milano hanno retto e sono state sovraccaricate ancora di più di funzioni. Ora tutti i collettivi, sia quelli contro la repressione, sia quelli di quartiere o i circoli giovanili prendevano come riferimento la libreria, anche come luogo, come indirizzo, come punto per ricevere la corrispondenza, per far la sede legale delle riviste. Era diventata una via di mezzo tra un centro sociale, un’organizzazione informale senza autorità e un luogo di diffusione.
I: E oggi com’è?
P: È stata chiusa dieci mesi a motivo di questa continua pressione immobiliare, di valorizzazione dei grandi corsi commerciali. Era sul Corso di Porta Ticinese e adesso è in Sant’Eustorgio. Gli affitti salgono a un livello tale che non puoi reggere il confronto, il libraio è notoriamente un mestiere povero, lavora al 30% di utile, il prezzo è fissato all’origine e quindi occorre un’adesione che vada più in là della semplice figura del commerciante. Ha riaperto da un mese con una pressione derivata da settori sociali con un po’ di nostalgia degli anni ’70, magari, ma con una fortissima richiesta anche dai settori giovanili, che grosso modo vengono definiti a Milano “Eventi radicali metropolitani”. Quindi tutte quelle culture che emergono oggi nelle metropoli disintegrate, dove si formano zone di marginalità molto grosse, con cui occorre avere molta attenzione e molta disponibilità, per capire la differenza culturale che viene prodotta, e poca ideologia. È quindi di nuovo un punto di riferimento e di incontro, specialmente in certi giorni della settimana.
I: Per te che ci sei è anche un grosso punto di osservazione?
P: Sì, è un punto di osservazione privilegiato sicuramente, tanto che, nelle varie occasioni in cui io o altri che girano nella libreria veniamo invitati nei licei o nelle assemblee, non sanno mai come definirti, se un sociologo, un osservatore urbano, un teorico dell’uso sociale degli spazi urbani, un libraio, un editore, non sai mai bene come collocarti. Invece di fare inchiesta esterna sei all’interno, invece di fare l’osservatore esterno sei all’interno, e quindi ricevi il flusso quotidiano dei cambiamenti, della comunicazione, della ricchezza o della povertà, o della disintegrazione, o dell’epoca delle grandi rotture come quattro, cinque anni fa, quando c’era molta follia, molti suicidi, molto dramma. Sapere cosa c’era dietro, conoscendo soggettivamente le persone, ti dava una forza molto profonda per capire i micro processi che poi diventavano, nella loro vastità, anche processi grandi e di cui si perdeva l’origine e non si capiva più dove andava a finire. Dall’interno indubbiamente è molto privilegiato, anche se molto faticoso, occorre molta disponibilità ad ascoltare, a comunicare, a far viaggiare la testa.
I: Sull’onda delle richieste che ci sono state dalla fine degli anni Sessanta, sono nati anche dei punti di vendita, legati non ad interessi reali di far circolare cultura o di corrispondere a delle esigenze, ma proprio di gente che ha pensato di speculare su un certo mondo giovanile. Per le librerie penso che questo sia accaduto molto meno, perché è l’essenza stessa della libreria che lo impedisce.
P: A partire dal caso clamoroso della moda hippie che Fiorucci industrializza già nel ’68 e la fa diventare un grande business, in qualche modo cogliendo già la fine di quel movimento che poi prende altre forme, anche le produzioni di nuova immagine — i nuovi gruppi giovanili hanno una fortissima sensibilità per la grafica e per l’immagine — e quindi produzioni di t-shirt, magliette o dischi o grafica, vengono in qualche modo recuperate dalla moda, dai negozi. Sui libri è molto difficile, il libro richiede un’azione attiva di lettura e di uso, dei contenuti, un’identità e un’affinità elettiva. Una libreria può commercializzarsi, può diventare un’ottima libreria democratica come è il circuito delle librerie Feltrinelli, continuando però a mantenere una sua dignità culturale e di immagine nonostante ciò, o altrimenti si immiserisce ai bestseller o alla moda. Un conto è la tendenza, un conto è la moda, notoriamente. Uno segue le tendenze e annulla le mode possibilmente.
I: All’inizio queste librerie erano anche prese di mira da fascisti, repressione, attentati…
P: Sì, in varie occasioni: l’Uscita di Roma è stata incendiata a suo tempo dai fascisti e lo stesso è successo al Sapere di Milano, una delle prime librerie con la formula di libreria, editrice e distributrice. Era qui vicino, in Piazza Vetra, stampava anche. Come noi abbiamo stampato Il Primo Maggio, Il Pane e le Rose, gli opuscoli delle 150 ore e libri per i bambini, e Controinformazione – una rivista tra le più criminalizzate, loro stampavano Potere Operaio, Sinistra Proletaria, Nuova Resistenza e i lavori dei lavoratori studenti. Ovviamente erano luoghi di produzione culturale forte, indipendente dai poteri (anche quando democratici), autogestite, ed erano obiettivi abbastanza visibili per i fascisti o per i gruppi dell’estrema destra. È successo quindi che il Sapere venne proprio distrutto, e anche l’Uscita, ed è difficile riprendersi dopo queste botte perché se ti incendiano trenta, quaranta milioni di libri o fai una grande sottoscrizione oppure… E in genere queste librerie hanno ripreso vita solo grazie alla visione militante dei loro frequentatori, d’altronde anche questa che aveva chiuso per motivi immobiliari ha riaperto con una spinta e una richiesta venuta dai suoi frequentatori. Questa questione dei fascisti ha cominciato a scemare dopo il ’77: prima eri costretto ad avere tutta una serie di congegni, porte chiuse, saracinesche abbassate, un po’ blindate, per quanto valgano, basta versare un po’ di benzina e una libreria si incendia molto facilmente.
I: Ci sono state molte richieste nei tuoi confronti perché tu riaprissi la libreria, in questi dieci mesi c’è stato un tripudio.
P: Sì, questa è un po’ la caratteristica della Calusca, nel senso che è una cosa molto trasversale, è frequentata da un’area di intellettuali democratici consolidati in questa città, che va dall’area di Magistratura Democratica a quella degli avvocati compagni, fino ai militanti operai o ai militanti dei gruppi, e alle nuove generazioni giovanili. Il fatto che avesse questa caratteristica — di essere legata a una rete nazionale e internazionale di reperimento di merce particolare, scritta, di comunicazione, quindi ad Amsterdam come a Berlino e a Londra, come in tutta Italia — ne fa un luogo anche di informazione. Ma soprattutto quello che ne determina la ricchezza è il fatto di essere un luogo di incontro e di comunicazione, una specie di punto di riferimento dove sai che se non è oggi è domani che incontrerai quello che arriva da Roma, o da Londra, o da Berlino, e dove si forma socialità e annullamento delle differenze, pur mantenendo le diversità. Quindi la richiesta è venuta più che per la sua funzione di diffusione di merci particolari, come la merce libro o la merce “comunicazione autogestita”, per questo meccanismo affettivo del luogo come punto di riferimento.
